Via Rasella e le Fosse Ardeatine

Il 23 marzo 1944, a Roma in via Rasella l'aria primaverile venne squarciata da una terribile esplosione: una bomba partigiana aveva ucciso 32 soldati tedeschi. Come ritorsione i tedeschi decisore di uccidere 10 italiani per ogni tedesco.

In quello stesso giorno vennero rastrellate 200 persone e alle due del pomeriggio 335 uomini furono ammassati in camion e portati via. Molti di loro erano prigionieri politici presi dalle celle di Regina Coeli, altri da via Tasso, altri ancora erano stati rastrellati per strada. Alle Fosse Ardeatine tutti morirono senza colpa, e fra di loro 75 ebrei, che morirono perché ebrei.
Il massacro fu perpetrato nelle cave Ardeatine, un luogo deserto situato a Roma sud, subito dopo l'eccidio i tedeschi fecero saltare in aria il luogo e murarono la cava, cosicché i pochi coraggiosi che si spinsero fin lì per vedere cosa fosse successo, non trovarono che un muro invalicabile. L'efficientissima macchina del massacro tedesca in pochi minuti annullò 335 uomini.

Solo dopo la liberazione fu possibile abbattere il muro e scoprire la verità terribile che si celava dietro il lugubre, inesorabile e sintetico comunicato tedesco del 24 marzo 1943: "L' ordine è già stato eseguito".


Via Rasella e le Fosse Ardeatine.

L'attentato di Via Rasella e l'eccidio delle Fosse Ardeatine

Subito dopo l'8 settembre 1943, nell'Italia occupata, sorgevano, in seno a gruppi e partiti politici o per iniziativa di civili e di militari, delle organizzazioni clandestine a carattere militare, che in proseguo di tempo dovevano svolgere un'azione di particolare importanza, specialmente nella liberazione dell'Italia settentrionale. Le più importanti di esse avevano un comune e superiore organo di coordinamento, la Giunta Militare, che era formata dai capi di sei di quelle organizzazioni (quelle che erano emanazioni dei sei partiti che avevano una più estesa organizzazione ed un più accentuato grado di penetrazione nella popolazione) e costituiva un organo del Comitato di Liberazione Nazionale; altre davano vita a diversi organi di coordinamento, sempre allo scopo di attuare in maniera unitaria e secondo alcune direttive generali una fattiva azione contro i nazi-fascisti.

 L'azione di queste organizzazioni, che si manifestava con atti di sabotaggio ed attacchi di colonne militari tedesche, era continua fuori dei centri abitati onde rendere difficile ai tedeschi I'opera di assestamento.

 Anche nella città di Roma si effettuavano, talvolta, azioni di sabotaggio ed attentati contro autocolonne o comandi militari, allo scopo, chiaramente manife sto a mezzo di volantini, di richiamare il nemico all'osservanza della posizione di città aperta della capitale d'Italia. Difatti, malgrado questa posizione interna zionalmente riconosciuta, i principali comandi militari tedeschi si trovavano nell'interno della città aperta ed in questa erano frequenti i passaggi di truppe e di materiale bellico.
II 23 marzo 1944 alle ore 15 circa, nell'interno della città aperta, in Via Rasella all'altezza del palazzo Tittoni, mentre passava una compagnia di polizia tedesca del Battaglione "Bolzen", che da quindici giorni era solita percorrere quella strada, scoppiava una bomba che uccideva ventisei militari di quelle compagnia ed altri feriva più o meno gravemente.

 Subito dopo lo scoppio della bomba alcuni giovani, che sostavano all'angolo di Via Boccaccio, lanciavano delle bombe a mano contro il resto della compagnia e, quindi, si ritiravano verso Via dei Giardini, allontanandosi immediatamente dalla zona.
Elementi della compagnia tedesca sparavano in direzione delle finestre sovrastanti e dai tetti,un po' all'impazzata, poiché in un primo momento credevano che I'attentato fosse stato effettuato con lancio di bombe a mano da una delle case.
Immediatamente giungevano sul posto il gen.Maeltzer comandante della città di Roma, il col. Dolmann ed alcuni funzionari di polizia italiani. Successivamente arrivava il Console tedesco a Roma signor Moellhausen con alcuni gerarchi del partito fascista repubblicano.

 II gen.Maeltzer alla vista dei militari tedeschi morti e feriti era preso da una forte eccitazione. Andava e veniva, gridava, gesticolava ed anche piangeva. Secondo lui si sarebbero dovuti fucilare sul posto individui arrestati nelle vicinanze e far saltare, con i suoi abitanti, il blocco di immobili davanti al quale aveva avuto luogo l'attentato

Intanto ufficiali e sottufficiali del comando di polizia tedesca di Roma, subito accorsi sul luogo, eseguivano un'accurata perquisizione nelle case di Via Rasella e facevano scendere sulla strada tutti gli abitanti,che erano condotti in Via Quattro Fontane ed erano allineati lungo la cancellata del Palazzo Barberini. Alle ore 15.30 circa il ten.col. Kappler giungeva al comando di polizia tedesca in Via Tasso. Informata di quanto era accaduto si avviava subito verso Via Rasella. Lungo la strada, in Via Quattro Fontane, egli era fermato dal Console Moellhausen, che ritornava da Via Rasella dove aveva avuto un forte diverbio con il Generale Maeltzer nel tentativo di fare procrastinare le intenzioni di vendetta che questi manifestava sotto I'impulso di una forte eccitazione, ed era stato pregato da quel diplomatico di agire sull'animo del comandante della città quanto mai furibondo e capace di commettere una pazzia.

Kappler, giunto in via Rasella s'incontrava con il gen.Maeltzer ancora molto eccitato, al quale, dopo un fugace scambio di impressioni, rivolgeva preghiera di essere incaricato di quanto riguardava l'attentato. Avuta risposta affermativa, egli prendeva subito contatto con i suoi dipendenti diretti, fra i quali il cap. Schultz ed il cap. Domizilaff che già si trovava su posto.

Alle ore 17 circa, accompagnato dal cap. Schutz che aveva già interrogato i superstiti della compagnia, egli si recava al comando della città di Roma. Ivi, alla presenza del gen. Maeltzer e di altri ufficiali di detto comando esprimeva l'opinione che l'attentato fosse stato effettuato da italiani appartenenti a partiti antifascisti. Circa le modalità di esecuzione dell'attentato egli affermava che "esso fosse stato compiuto mediante lancio di un ordigno principale da una certa altezza e di bombe probabilmente lanciate da diverse persone dai tetti di diverse case"

Altro argomento di conversazione era dato dalle misure di rappresaglia da adottare in relazione all'attentato.

 Mentre si svolgeva la discussione il Gen. Maeltzer parlava spesso al telefono. In una di queste telefonate egli usava con frequenza le parole misure di rappresaglia. Ad un certo momento il generale tedesco faceva cenno al Kappler di avvicinarsi e quindi passatogli il ricevitore ed informatolo che all'apparecchio c'era il Gen. Mackensen, lo invitava a parlare con quel generale. II Gen. Mackensen, dopo aver chiesto alcuni particolari in merito all'attentato, entrava subito in argomento circa le misure di rappresaglia intorno alle quali, a giudicare dal suo modo di parlare, egli aveva già discusso con il Gen. MaeItzer.

 Giunto in ufficio il Kappler dava disposizioni perché fossero accelerate le indagini circa I'attentato con l'aiuto di tutti i collaboratori italiani. Poco dopo veniva chiamato al telefono da Magg. Boblem, addetto al comando della città di Roma. Questo ufficiale lo informava che poco prima suo comando era giunto un ordine in base al quale entro le ventiquattro ore doveva essere fucilato un numero di italiani decuplo di quello dei soldati tedeschi morti. A richiesta del Kappler, il Magg. Boblem precisava che l'ordine proveniva dal comando del Maresciallo Kesselring.

 Alle ore 21 il Kappler aveva una conversazione telefonica con il Generale Harster, capo del BSS con sede in Verona, al quale riferiva in merito all'attentato ed al suo sviluppo. Gli comunicava pure che, in base ai dati poco prima fornitigli dalle sezioni dipendenti, egli disponeva di circa duecentonovanta persone, delle quali peró un numero notevole non rientrava nella categoria dei todeswurdige. Circa cinquantasette, infatti, erano ebrei detenuti solo in base all'ordine generale di rastrellamento ed in attesa di essere avviati ad un campo di concentramento. Aggiungeva che delle persone arrestate in Via Rasella, secondo informazioni dategli poco prima dai suoi dipendenti, solo pochissime risultavano pregiudicate ovvero erano state trovate in possesso di cose (una bandiera rossa, manifestini di propaganda ecc.) che davano possibilità di una denunzia all'autorità giudiziaria militare tedesca. A conclusione della conversazione rimaneva d'accordo col suo superiore d'includere degli ebrei fino a raggiungere il numero necessario per la rappresaglia.

Intanto si aveva notizia che altri soldati tedeschi, fra quelli gravemente feriti, deceduti. Alle otto del mattino successivo il numero complessivo dei morti ammontava a 32.

II mattino successivo, alle nove, Kappler aveva un colloquio con il Commissario di P.S. Alianello, che pregava di chiedere, con la massima urgenza, al vice capo della polizia Cerruti se la polizia italiana era in grado di fornire cinquanta persone. II Cerruti poco dopo gli comunicava che avrebbe mandato da lui il Questore Caruso perché prendesse accordi in merito alla consegna di cinquanta uomini. Alle 9,45 il Caruso, accompagnato dal Ten. Koch, che in quel tempo svolgeva funzioni di polizia non ben definite, si presentava dal Kappler. Questi spiegava ai due come, per completare una lista di persone da fucilare in conseguenza dell'attentato di Via Rasella, aveva bisogno di cinquanta persone arrestate a disposizione della polizia italiana e spiegava i criteri in base ai quali egli aveva già compilato una lista di 270 persone. A conclusione di questo colloquio si stabiliva che iI Questore Caruso avrebbe fatto pervenire al Kappler per le ore 13 un elenco di cinquanta persone. Nell'elenco compilato dal Kappler con l'aiuto dei suoi collaboratori numerosi erano i detenuti per reati comuni e gli ebrei arrestati per motivi razziali; fra gli altri poi una persona assolta dal Tribunale Militare tedesco e due ragazzi di 15 anni, dei quali uno arrestato perché ebreo. Alle 12 circa I'imputato si recava nell'ufficio del Gen. Maeltzer il quale qualche ora prima gli aveva fatto sapere che I'attendeva per tale ora. Mentre quel generale lo informava chel'ordine della rappresaglia proveniva da Hitler giungeva il Maggiore Dobrik del battaglione "Bozen", che era stato convocato qualche ora prima. II Ten. Col. Kappler informava il generale di aver compilato una lista di persone che gli consegnava. A questa lista, diceva, dovevano aggiungersi i nominativi di cinquanta persone che, per le ore 13, gli sarebbero stati dati Questore Caruso, scelti fra i detenuti che questi aveva a sua disposizione Complessivamente, quindi, si raggiungeva il numero di 320 persone, pari al decuplo dei militari tedeschi che fino a quel momento erano deceduti. II generale Maeltzer, informato dall'imputato dei criteri adottati nella compilazione della Iista, si rivolgeva al Dobrik dicendogli che spettava a lui eseguire la rappresaglia con gli uomini che aveva a sua disposizione Quest'ufficiale esponeva una serie di difficoltà (il fatto che i suoi uomini erano anziani, poco addestrati all'uso delle armi superstizioni, ecc.) con I'evidente scopo di sottrarsi al compito affidatogli. Due giorni dopo, difatti, il ten. col. Kappler riferiva questo episodio al generale Wolf per fare un addebito al maggiore Dobrik. "Dissi - egli afferma parlando di questo colloquio - che Dobrik, al quale sarebbe toccato di eseguire la fucilazione, si era tirato indietro, e con ciò io presentavo ufficialmente le mie lagnanze contro Dobrik a Wolf.

Stante le difficoltà poste dal Dobrik, il Gen Maeltzer telefonava al Comando della 14.ma armata e parlava con l'allora Col. Hanser, al quale, dopo aver prospettato quanto detto da quell'ufficiale, chiedeva venisse comandato un reparto di quell'armata per l'esecuzione. Congedatosi dal Gen. Maeltzer, il Kappler si portava nel suo ufficio in Via Tasso. Qui chiamava a rapporto gli ufficiali dipendenti e li informava che fra qualche ora avrebbero dovuto eseguirsi la fucilaione di 320 persone in conseguenza dell'attentato di Via Rasella. Al termine della riunione il Kappler impartiva l'ordine che tra tutti gli uomini del suo comando di nazionalità tedesca, dovessero partecipare all'esecuzione. Contemporaneamente ordinava al Cap. Schultz di dirigere l'esecuzione e gli dava disposizioni particolari in merito alla modalità dell'esecuzione medesima. "Dissi poi a Schultz - egli afferma - che per la ristrettezza del tempo, si sarebbe dovuto sparare un sol colpo al cervelletto di ogni vittima e a distanza ravvicinata per rendere sicuro questo colpo, ma senza toccare la nuca con la bocca dell'arma." Quindi s'iniziava I'esecuzione: cinque militari tedeschi prendevano in consegna cinque vittime, le facevano entrare nella cava, che era debolmente illuminata da torce tenute da altri militari posti ad una certa distanza I'uno dall'altro, e le accompagnavano fino in fondo, facendole svoltare in un'altra cava che si apriva orizzontalmente; qui costringevanole vittime ad inginocchiarsi e, quindi,ciascuno di essi sparava contro la vittima che aveva in consegna. Alle ore 19 circa la strage era terminata. Subito dopo si fecero brillare delle mine, chudendosi in questo modo quella parte della cava nella quale i cadaveri ammucchiati fino all'altezza di un metro circa, occupavano un breve spazio.